Goriano Sicoli è uno
dei numerosi paesi dell'Abruzzo montano che sono stati esplorati e
rappresentati da M. C. Escher nelle sue opere grafiche.
Secondo una antica suggestione di G. Pontano, il toponimo
è uno dei non pochi,
nella regione, che conservano traccia di quelli che in latino venivano
chiamati
"Siculis",
i quali, come Plinio ci racconta nella sua enciclopedica
Naturalis
historia (3,110), si erano spinti fino a Numana (e, di fatto,
oltre). Secondo altre ipotesi, all'origine del nome ci
sarebbe la parola latina
"Siccus".
Gli studi più
recenti e autorevoli hanno infine riconosciuto
in
"Sicoli"
un antroponimo di origine longobarda.
Così Plinio inizia a descrivere la regione (Nat. hist.
3,106):
Sequitur regio quarta
gentium vel fortissimarum Italiae.
L'ammirazione di Plinio per le virtù belliche delle genti
che popolavano l'odierno Abruzzo rientra nel sistema di valori della
società del suo tempo, che si distingueva per la tecnica
militare e l'estremo pragmatismo che avevano reso possibile la sua
vertiginosa espansione.
Questa bella immagine di M.C.Escher richiama le idee di
unità,
di armonia, di civile convivenza, e allude al nostro rapporto con il
mondo naturale e a quella sapienza operativa, a quel concreto saper
fare, noto con il nome onnicomprensivo di Tecnica, che ci consente di
sopravvivere e di vivere meglio.
L'analisi armonica è un settore della Matematica.
È difficile pensare a una attività dell'umano ingegno che
sia universalmente più utile alla Tecnica di quanto non lo
sia la
Matematica.
Alla pastorizia è utile il concetto di numero intero,
come alla agrimensura è indispensabile il concetto
di numero razionale.
Questi semplicissimi esempi già indicano che un armonioso
progresso sociale, che si appoggi sul progresso tecnologico, si
realizza di pari passo con il progresso nelle scienze matematiche.
Tuttavia, non sempre i concetti matematici indispensabili alla Tecnica
sono scoperti in risposta immediata a una determinata esigenza
applicativa.
Ad esempio, la tecnica che produce gli elettrodomestici, che ha origini
negli studi sull'elettromagnetismo del XIX secolo, non esisterebbe se
gli algebristi italiani del cinquecento, impegnati nel calcolo del
tasso interno di rendimento di certe operazioni finanziarie, non
avessero scoperto il curioso concetto di radice quadrata di -1, dando
così vita al calcolo dei numeri complessi che, dopo tre
secoli, ha formato il linguaggio indispensabile alla formulazione delle
leggi che vengono usate per controllare, costruire e descrivere queste
moderne macchine.
E le tecniche di visualizzazione diagnostica usate nella medicina
moderna non esisterebbero se il matematico Johann Radon non avesso
studiato certi problemi di " ricostruzione funzionale" nei suoi lavori
dei primi decenni del XX secolo, quando nessuno era in grado di
applicare direttamente quelle idee.
E la crittografia moderna non esisterebbe senza gli studi di teoria dei
numeri, che i matematici hanno intrapreso per puro piacere, senza
pensare ad alcuna particolare applicazione pratica, ma anzi
richiamandosi con orgoglio all'
onore
dello spirito umano,
come si espresse Jacobi, riprendendo le idee di Abel, nella sua polemica con Fourier, nei primi
decenni del diciannovesimo secolo.
Fourier è stato uno dei creatori dell'analisi armonica, e
pensava che la Matematica dovesse occuparsi soltanto di questioni
direttamente sollevate dai bisogni della Tecnica. Gli esempi
già fatti, e mille altri che si possono fare, mostrano che,
in questa polemica, aveva ragione Jacobi, anche ammettendo il punto di
vista puramente utilitaristico di Fourier.
Ad esempio, è difficile credere che Albert Einstein avrebbe
potuto inventare
ad hoc
tutto l'armamentario teorico necessario alla formulazione delle sue
teorie del mondo fisico, se qualche decennio prima, Riemann, uno dei
più grandi matematici di tutti i tempi, non avesse
introdotto nuove teorie geometriche che si rivelarono
adattissime allo scopo. Bisogna anche dire che gli interessi di Riemann
per il mondo fisico (inclusa la fisiologia e la psicologia) erano pari
a quelli che aveva per il mondo dei concetti matematici, e che la sua
nuova geometria era anche nata dietro la spinta di quella che era una
delle sue preoccupazioni: quella di superare i limiti del linguaggio
matematico del suo tempo, ai fini della formulazione di appropriate
teorie del mondo fisico.
In somma: l'esperienza storica indica che soltanto se i matematici si
occupano
anche
dei problemi che sono suggeriti dalla materia stessa delle loro
riflessioni è possibile che si raggiunga un progresso
sufficiente alle applicazioni alla Tecnica.
La civiltà romana antica, contenta dell'energia umana
fornita dagli schiavi, e adagiata su un patrimonio tecnologico privo di
un adeguato sostrato di cultura matematica e filosofica, rappresenta un
esempio, in negativo, di questo fatto.
Alcuni hanno espresso l'opinione che la civiltà islamica,
nel suo periodo di massimo splendore, iniziato intorno al IX secolo,
sia un esempio di segno opposto, di una struttura sociale dove una
elite di intellettuali si impegna nello studio della Matematica
senza un armonioso
raccordo
con la Tecnica, e che proprio per questo motivo non abbia potuto trarne
adeguato vantaggio. Un più attento esame delle fonti
storiografiche disponibili indica che però questa opinione
è affrettata, se non faziosa.
Da un lato infatti le fonti indicano che anche le loro indagini
matematiche erano ispirate dall'impegno pratico, che li
portò a realizzare notevoli progressi in ogni campo della
Tecnica.
Dall'altro lato è ben noto che i tesori culturali della
civiltà greca antica ci sono pervenuti proprio grazie alla
fervida operosità degli studiosi arabi, che hanno reso
nuovamente fertile l'antico terreno della cultura greca, e quindi reso
possibile la rivoluzione scientifica del Seicento. Essi salvarono
dall'oblio quei capolavori e arricchirono l'antico patrimonio
scientifico di contributi originali, proprio in un momento in cui il
continente europeo attraversava un periodo di totale decadenza, da cui
iniziò a risollevarsi soltanto nel XII secolo, in buona
parte per merito della traduzione di quei capolavori dall'arabo.
Ricordiamo che le due pietre miliari di quella rinascita sono state
la prima traduzione di Euclide dall'arabo, avvenuta verso il 1120-30, e
l'opera di Leonardo Fibonacci, nato nel 1170 circa, che
importò (ai fini della tenuta dei bilanci e registri
commerciali) l'aritmetica araba, ovvero la numerazione posizionale, che
fornì la base alla scuola degli algebristi italiani del XVI
secolo.
Prima di allora, gli studiosi nel continente europeo avevano a
disposizione soltanto il
De
istitutione arithmetica di Boezio, che conteneva tracce
del neopitagorismo misticheggiante del II secolo d.C. ma nulla della
splendida Matematica ellenistica. L'influenza degli arabi sulla
rinascita culturale del continente europeo non si limitò
alla Scienza: secondo alcuni studi, la poesia provenzale
subì l'influenza della poesia arabo-andalusa.
Per quanto riguarda l'analisi armonica, che è il tema di
questo convegno, osserviamo che i
problemi della conduzione del calore e della propagazione delle onde
sonore, il calcolo delle probabilità e le sue applicazioni alla
statistica, lo
studio delle proprietà microscopiche della materia, le
tecniche di
visualizzazione delle parti interne del corpo umano, impiegate nella
medicina moderna, la tecnica dei forni a microonde, sono tutti esempi
di applicazioni dell'analisi armonica alla Tecnica. E questo non
è che
un elenco parziale.
L'elenco delle applicazioni infatti continua a lungo e risulta
senz'altro sorprendente per coloro
che credono che la Matematica sia soltanto un puro gioco formale, un
complesso sistema di segni sulla carta, un territorio intangibile
immaginato da menti lontane dalla realtà di tutti i giorni.
Da un certo punto di vista, l'attività dei matematici non
è dissimile da quella di un artista che esplora, non senza
difficoltà,
un territorio, scoprendone via via i paesi, gli abitanti, le montagne,
che poi rappresenta graficamente. Il linguaggio matematico allude a un
contenuto mentale che viene condiviso e trasmesso da un matematico
all'altro, così come il linguaggio comune trasmette i nostri pensieri
e ci consente di comunicarne i contenuti.
I successi indiscutibili della
Matematica nelle sue
applicazioni alla Tecnica ci portano inevitabilmente a chiederci quali
ne siano le ragioni.
A questo punto il discorso si porta
inevitabilemente su un piano di riflessione filosofica, che ci
arricchisce di alcuni insegnamenti utilissimi, contrariamente alla
popolare immagine di quel filosofo tanto distratto dalle cose celesti
da
cadere nel pozzo.
In effetti, i legami dell'analisi armonica con gli altri settori della
Scienza, e le sue applicazioni alla Tecnica, sono tanto numerosi e
profondi che illustrano, meglio di ogni altro fatto, alcune idee
filosofiche introdotte dalla scuola pitagorica, fiorita nella seconda
metà del VI secolo a.C. a Crotone in Calabria, proprio dove
fioriva una importante scuola di Medicina. In primo luogo, l'idea di
unità della Scienza.
Alla scuola pitagorica si devono altre due idee, strettamente legate
alla prima: quella che il mondo sia razionale e che la sua struttura
sia scritta in linguaggio matematico.
Una conseguenza di questi assunti è che la Tecnica non sia e
non possa essere altro se non una applicazione della Scienza.
L'idea che la struttura più intima del mondo sia scritta in
un linguaggio razionale è riapparsa in varia forma nel corso dei
secoli. Essa si trova nei contributi di Archimede e nel manifesto della
rivoluzione scientifica del Seicento, scritto dal nostro Galilei. Essa
forma implicitamente il credo filosofico di qualsiasi scienziato
moderno. Questa idea è avvalorata assai bene dai successi
dell'analisi armonica nelle applicazioni pratiche della Matematica, e
dai legami che essa ha con gli altri settori della Scienza.
Osserviamo per inciso che tuttavia l'unità della Scienza
rappresenta più una direzione ideale che non una
realtà finalmente compiuta, ed è anzi stata messa
in discussione, anche come base epistemologica, da Feyerabend, un
filosofo della Scienza estremamente importante (a differenza, devo dire, dei suoi epigoni).
In effetti, la riflessione filosofica ci permette di evitare alcuni
errori comuni, il primo dei quali commesso proprio dalla scuola
pitagorica.
La tradizione attribuisce ai
matematici della scuola pitagorica una scoperta che metteva in crisi lo
stesso modello matematico che il loro maestro aveva creato del mondo
esterno. La visione scientifica di quella scuola voleva
che:
"Tutte le cose che si
conoscono hanno numero; senza di questo nulla sarebbe possibile
pensare, né conoscere."
Per quei pensatori, i numeri erano quelli che noi oggi chiamiamo numeri
interi. Inoltre, quei pensatori avevano imparato a riconoscere un dato
significativo in quello che oggi noi chiamiamo il rapporto tra i numeri
interi. Dunque, in un certo senso, i matematici della scuola pitagorica
vedevano nella realtà del mondo fisico un sostrato
discontinuo.
Conviene spendere qualche parola per spiegare l'origine e il senso
della visione filosofica e scientifica della scuola pitagorica.
I pitagorici avevano scoperto che le consonanze musicali dipendono non
tanto dalla coppia di numeri interi che esprimono le dimensioni lineari
dello strumento, ma da quello che con linguaggio moderno chiamiamo il
loro rapporto.
La tradizione attribuisce ad Ippaso di Metaponto, un matematico della
scuola di Pitagora, un esperimento in cui mostra che gli stessi accordi
venivano prodotti da diverse coppie di strumenti, a condizione che le
coppie di numeri interi, che esprivano le loro grandezze, esprimessero
lo stesso rapporto.
Ad esempio, le coppie di numeri interi (16,20) e (20,25) esprimono lo
stesso rapporto (il rapporto di 4 a 5), e due coppie di dischi
metallici dello stesso diametro, in cui gli spessori siano espressi da
queste coppie di numeri interi, produrranno lo stesso accordo musicale;
lo stesso risultato si ottiene con due coppie di strumenti a corda in
cui le lunghezze sono espresse da queste due coppie di interi.
Dunque, i pitagorici scoprirono che la chiave nascosta degli accordi
era nei numeri e nei loro rapporti, indipendentemente dallo strumento
musicale e dal materiale scelto.
Kurt von Fritz ha osservato che i pitagorici usavano due termini per
indicare il concetto di
rapporto.
La prima era
diastema,
che significa
intervallo,
e mostra che le loro prime riflessioni avevano avuto
origine nella teoria musicale.
La seconda era
logos.
I Greci avevano due termini per indicare il concetto di
parola.
Il primo era
epos,
che indicava la parola in quanto evocatrice di una
immagine. La seconda era proprio
logos,
che indicava la parola in quanto evocatrice di un
significato, di un
concetto,
di una
essenza.
Non a caso Erodoto chiama
logoi
quelle storie che hanno un significato morale.
Grazie a questo uso pitagorico-matematico del termine esso ha poi
assunto il significato di
legge (che descrive il mondo).
Quindi, il
logos
della coppia (16,20)
è il significato, l'essenza, o la natura intrinseca di
quella coppia di interi, comune anche alla coppia (20,25) e alla coppia
(4,5), ecc.
Nel caso della teoria musicale, l'accordo viene percepito
dall'orecchio, ma è il
logos
tra le dimensioni lineari dei due strumenti che, secondo i pitagorici,
rivela e contiene la natura vera di quell'accordo, in quanto attraverso
di esso l'accordo può essere definito e riprodotto da
strumenti differenti per materiale e dimensione.
I pitagorici hanno naturalmente cercato di estendere e applicare questo
stesso principio unificatore allo studio dell'astronomia, alla
geometria e all'aritmetica.
In geometria era naturale, a partire da queste premesse, che questi
matematici volessero cercare il
logos
proprio delle figure geometriche.
I pitagorici avevano dimestichezza con i cristalli di pirite, che
assumono in genere la forma di un poliedro di 12 facce pentagonali e
quindi, idealmente, quella di un dodecaedro, formato appunto da 12
pentagoni regolari. A quanto pare Ippaso di Metaponto fu il primo a
chiedersi quale fosse il
logos
della coppia formata dal lato e dalla diagonale di un pentagono
regolare.
Individuare il
logos
che è proprio della coppia formata dal lato e dalla
diagonale di un pentagono regolare significa determinare un
sottomultiplo comune alle due lunghezze, ossia individuare una
lunghezza che sia contenuta esattamente, diciamo, h volte nel lato ed
esattamente k volte nella diagonale del pentagono, dove h e k sono due
interi che devono essere identificati.
Una volta che gli interi h e k sono stati identificati, il
logos che
è proprio del lato e della diagonale del pentagono
è quello che è proprio della coppia di interi
(h,k).
La maniera più semplice per individuare un sottomultiplo
comune tra due lunghezze, e quindi il loro
logos (vale a dire
il rapporto), è di procedere per differenze successive.
Ad esempio, dati due segmenti di lunghezza diversa, se la differenza
è contenuta esattamente quattro volte nel segmento di
lunghezza minore, allora il loro rapporto è di 4 a 5.
Ippaso di Metaponto scoprì che un sottomultiplo comune al
lato e alla diagonale di un pentagono regolare non esiste.
Per capirlo, basta osservare, in primo luogo, che le cinque diagonali
di un pentagono regolare (ottenute unendo i vertici due a due
internamente al pentagono)
formano un nuovo pentagono regolare al suo interno, che, allo stesso
modo, a sua volta ne forma un altro al proprio interno, e
così via, indefinitamente.
Dentro il primo pentagono ne avremo quindi un secondo, formato dalle
diagonali del primo, e dentro il secondo pentagono un terzo, formato
dalle diagonali del secondo, e così via, indefinitamente.
L'avverbio
indefinitamente
significa che la costruzione procede idealmente senza mai fermarsi,
anche se, naturalmente, a un certo punto dobbiamo materialmente
fermarci per ragioni pratiche: ma da un punto di vista concettuale, la
costruzione non incontra mai un ostacolo intrinsecamente geometrico.
In secondo luogo, non è difficile osservare, sulla base di
alcune semplici proprietà dei triangoli isosceli, ovvero le
simmetrie della figura, che la differenza tra la diagonale e il lato
del primo pentagono è uguale alla diagonale del secondo
pentagono, e che la differenza tra la diagonale del secondo pentagono e
il lato del primo è uguale al lato del secondo pentagono, e
così via indefinitamente. Il metodo delle differenze
successive non termina mai, anzi ripropone ad ogni passo la risposta
che aveva dato al passo precedente, ad una scala più
piccola, producendo una vertiginosa spirale senza fine. Quindi, un
sottomultiplo comune alla diagonale e al lato del primo pentagono non
esiste.
Due grandezze che non hanno un sottomultiplo comune si dicono
incommensurabili.
La scoperta metteva in crisi il pensiero del maestro, tanto che ne
venne proibita la diffusione.
In breve, l'errore filosofico commesso dalla scuola pitagorica
fu quello di confondere la realtà con i modelli matematici
che di questa sappiamo costruirci. Nello specifico, alla base
dell'errore vi era la convinzione che qualsiasi coppia di grandezze
fosse commensurabile, ovvero possedesse un sottomultiplo comune.
In seguito alla crisi della scuola pitagorica, la scienza del continuo,
che a quel tempo era la geometria, venne tenuta rigorosamente distinta
dalla scienza del discontinuo, che a quel tempo era l'aritmetica.
Quella divisione è stata rafforzata da alcune argomentazioni
e ragionamenti, scoperti da altri pensatori della Magna Grecia, in
particolare da quei nodi gordiani che furono per lo spirito greco le
famosissime aporie di Zenone di Elea, dove guarda caso si riproponeva
il vertiginoso vortice del regresso
ad infinitum.
Conviene riprendere il filo del discorso, interrotto dalla scoperta che
non tutte le coppie di grandezze hanno un
logos.
Ci sono anche coppie di grandezze che sono
alogoi,
cioè senza
logos,
.
Lo spirito dei matematici greci non si arrese a quella scoperta.
Dunque, a un certo punto, essi cercarono modi per identificare ed
esprimere il fatto che due coppie di quantità
incommensurabili (che non hanno
logos propriamente detto) possono avere lo stesso
logos.
Ma come definire e identificare il
logos
di due
alogoi
?
Si poneva una doppia difficoltà, terminologica e
concettuale.
La difficoltà terminologica era una spia linguistica della
difficoltà concettuale.
I greci sapevano che chi non sa dire quello che pensa deve pensare
quello che sa dire, e si misero al lavoro su entrambi i fronti.
Kurt von Fritz ha osservato che per qualche tempo la
difficoltà terminologica venne risolta usando l'espressione
arrethos,
che significa
inesprimibile, per indicare quelle coppie di grandezze che
non hanno un
logos
propriamente detto: sono come abbiamo detto le lunghezze
incommensurabili, ossia prive di un sottomultiplo comune.
Successivamente essi crearono il termine
rhetos
(razionale) in contrasto con
arrhetos.
Sul piano concettuale, il problema che si poneva allo spirito di quei
matematici era quello di dare una precisa definizione di
logos di una
coppia di lunghezze, che sia ugualmente applicabile quando le due
lunghezze sono incommensurabili (e quindi, lo ricordiamo, non hanno un
logos secondo la
definizione originale della scuola pitagorica).
Ad esempio, i matematici greci scoprirono, successivamente alle prime
osservazioni di Ippaso di Metaponto, che la diagonale e il lato di un
qualsiasi quadrato non hanno un sottomultiplo comune, sono
cioè incommensurabili,
alogoi, senza logos.
Originalmente, il
logos
di una coppia di grandezze commensurabili, ossia dotate di un
sottomultiplo comune, era codificato in una coppia di numeri interi: ma
se le grandezze non sono commensurabili, come esprimerne il
logos? Eppure, era
ben chiaro a quei geometri che in tutti i quadrati, lato e diagonale
dovevano avere lo stesso logos, anche se essi sono
alogoi.
Per risolvere il busillis quei matematici dovettero prima di tutto
capire che non era importante dire
che
cosa sia il logos
della coppia formata dalla diagonale e dal lato del quadrato, ma
piuttosto saper definire con precisione, che cosa si intende quando si
dice che il
logos
della coppia (A,B) di grandezze è uguale al
logos della coppia
(R,S) di grandezze. La definizione si deve poter applicare tanto alle
coppie di grandezze commensurabili che a quelle incommensurabili, e
deve ricatturare il primitivo concetto di
logos quando le
grandezze sono commensurabili, e deve naturalmente dire che il logos
della diagonale e del lato di un dato quadrato è uguale a
quello formato dalla diagonale e dal lato di un altro quadrato
qualsiasi.
Inizialmente i matematici greci diedero una risposta che per noi, che
giudichiamo con il senno di poi, è estremamente
interessante, ma che a quel tempo fu vista con sospetto, in quanto
rimandava a una successione infinita di passi. Oskar Becker ha
rintracciato questo primo tentativo di definire il logos di due
quantità
nei
Topica
di Aristotele.
Un'altra soluzione fu ottenuta da Eudosso, nato nel 400 a.C. a Cnido,
origine di una importante scuola di Medicina. Egli definì
appunto che cosa si deve intendere quando si dice che due coppie di
grandezze hanno lo stesso
logos.
La sua definizione è dotata delle
proprietà sopra descritte, in cui ovviamente la parola
logos
aveva un significato nuovo rispetto a quello che aveva per
i pitagorici. Finalmente, fu di nuovo possibile dire che due coppie di
alogoi
hanno lo stesso
logos,
senza cadere in una contraddizione logica.
La definizione di Eudosso di Cnido fu estremamente feconda, specie
nella mani di Archimede, e restava nel solco di quella divisione rigida
tra geometria e aritmetica, che era stata rafforzata, se non creata,
dalla prima crisi del pensiero pitagorico, e successivamente dalle
aporie di Zenone di Elea. In effetti, la definizione di Eudosso di
Cnido era situata interamente nell'ambito della geometria.
Quella divisione è stata parzialmente
risolta nel XIX secolo, ancora per l'impulso dato
dall'antica idea dell'unità della Scienza. Più
precisamente, nella
seconda metà di quel secolo, Dedekind operò una
riduzione della
geometria all'aritmetica, vale a dire: una operazione per cui uno
schema concettuale viene descritto in termini di un
altro, che diventa primario e dominante rispetto al primo.
Alcuni hanno sostenuto che Dedekind non avrebbe fatto altro che
riprendere e riformulare la definizione di Eudosso in termini
aritmetici.
A me sembra che mentre i geometri greci, turbati dalla crisi del
pitagorismo e dalle aporie di Zenone, mantenevano una netta distinzione
tra aritmetica e geometria e quindi nemmeno avrebbero osato operare
quella riduzione, quella operata da Dedekind, che ovviamente non
sentiva più il peso della crisi del pensiero pitagorico, era
completa, cosciente, esplicita. Non è forse un caso se
proprio in quegli anni Frege tentava di ridurre tutta la matematica
alla logica, in un lavoro intellettuale che si sarebbe arrestato di
fronte alla nuova crisi del pensiero matematico e filosofico, che si
doveva aprire in quel periodo pieno di disinvolte riduzioni. Osserviamo
per inciso che le operazioni di riduzione sono uno dei bersagli critici
di Feyerabend.
Non è forse un caso se proprio mentre Dedekind operava
quella operazione di riduzione della
geometria all'aritmetica, un altro matematico, Cantor, ispirato guarda
caso da questioni interne all'analisi armonica, poneva una domanda che
si può considerare la forma moderna dell'antica aporia tra
continuo e discontinuo, una domanda che
infiniti dubbi doveva addurre ai matematici negli anni successivi, e
fino ai giorni nostri:
quanti punti ci sono esattamente in una retta?
La spinta propulsiva che questa domanda, apparentemente
oziosa, ha dato alla Matematica è stata enorme. La moderna
scienza dei
calcolatori elettronici non esisterebbe senza il lavoro intellettuale
svolto dai matematici sulla spinta di quella domanda e nel tentativo di
dare ad essa una risposta esauriente (essendo
insoddisfacente la prima risposta che viene in mente, come Cantor per
primo ha fatto vedere).
Questo esempio mostra ottimamente quanto sia imprevedibile, a priori,
il campo di
applicabilità della ricerca in Matematica.
Ci sono ragioni per credere che le operazioni di
riduzione di un modello a un altro non siano sempre la mossa
migliore. Se è difficile rassegnarsi alla
necessità di avere diversi modelli matematici della
realtà, allora è naturale che si speri di poterli
integrare in un unico modello
onnicomprensivo, in nome dell'idea dell'unità della Scienza.
Per quanto concerne la dicotomia tra continuo e discontinuo, una
sintesi è stata
realizzata, in un certo senso, soltanto nella seconda metà
del
XX secolo, da Grothendieck. Inizialmente accolto con scetticismo, il
voluminoso armamentario concettuale introdotto da questo matematico ha
costituito il linguaggio di base per la
risoluzione di alcuni famosi problemi matematici, incluso l'Ultimo
Teorema di Fermat.
Per tornare alla lezione filosofica che possiamo trarre dalle vicende
della scuola pitagorica, osserviamo che oggigiorno, sebbene le idee
innovative sono sempre accolte
inizialmente con una certa resistenza, gli scienziati (i pensatori)
più accorti non pretendono di appiattire la
realtà sui modelli
teorici che la Matematica (il linguaggio) ci permette di formulare.
Essi
sono sempre pronti ad allargare o modificare una teoria, se l'evidenza
sperimentale indica che bisogna farlo.
Questa lezione filosofica, che qualsiasi scienziato moderno
apprende come parte della sua educazione, non è stata
appresa da
tutti. Basta pensare alla teoria di E. Berne, chiamata "psicologia
transazionale", fortunatamente oggi non più di moda, che
pretendeva di
appiattire i nostri comportamenti interpersonali a un semplicissimo
gioco combinatorio.
A proposito di semplici giochi combinatori, è difficile non
pensare alle teorie degli aziendalisti, che
pretendono di appiattire tutte le nostre istituzioni, senza eccezione,
sui loro schemi, e senza riguardo alcuno, bisogna dire, per gli scopi
stessi di
quelle istituzioni. Ad esempio, se proprio vogliamo vedere
l'Università come una Azienda,
allora dobbiamo chiederci se, rimodellata secondo questo
schema mentale, l'Università consegue o no i suoi scopi
istituzionali,
che sono la ricerca scientifica, l'istruzione superiore, la
trasmissione del sapere da una generazione all'altra, la formazione di
un congruo numero di individui in grado di far funzionare e progredire
una società dove la Tecnica è in larga misura
basata sulla Scienza.
Questi sono soltanto due esempi tra i tanti che si potrebbero fare
della ostinazione con cui può capitare di pretendere che il
mondo si adegui magicamente ai nostri schemi mentali.
Concludo approfondendo due punti.
Il primo riguarda la funzione dell'Università come luogo di
istruzione superiore in cui avviene la trasmissione del sapere da una
generazione all'altra. La storia insegna che la perdita del patrimonio
scientifico accumulato
fino al III secolo avanti Cristo, che si può datare alla
caduta di
Siracusa in mano romana, è stata irreparabile: ci sono
voluti secoli per recuperare, ricostruire, riscoprire quel patrimonio.
Lucio Russo ha
osservato che Plinio il Vecchio, il più grande pensatore di
epoca romana, non
era in grado di comprendere i trattati scritti dai matematici tre
secoli prima, tanto grande era stata la decadenza
della cultura scientifica che si era prodotta a partire dalla morte di
Archimede, avvenuta proprio con la caduta di Siracusa.
Torniamo a un'altra idea cara alla
scuola pitagorica: quella che la Tecnica non sia e non debba essere
altro che applicazione della Scienza, ovvero dei modelli teorici che
la Matematica (e il Linguaggio in senso lato) possono formulare intorno
al Mondo.
Tuttavia, di fatto, non di rado la Tecnica muove i suoi passi dietro la
spinta del caso, andando oltre i confini della Scienza, in tentativi
suggeriti dall'intuito e non da consapevoli deduzioni operate entro i
suoi confini e in applicazione dei suoi principi. In certa misura, uno
scollamento temporaneo tra i due termini sembra fisiologico al
movimento di progresso scientifico e tecnologico, ma è
comunque auspicabile una certa cautela nell'abbracciare i prodotti
tecnologici che non sono poggiati su un solido sostrato scientifico.
Ad esempio,
l'aspirina è stata usata per
decenni, e con soddisfazione dei malati, prima che fosse formulata una
spiegazione della sua efficacia a livello della Biologia Molecolare.
In altri casi, siamo stati meno fortunati. Alcuni ritrovati della
tecnologia sono stati impiegati con superficiale entusiasmo e senza una
piena scienza dei loro effetti sulla salute umana, i quali si sono
rivelati nefasti, come abbiamo scoperto nel corso di quelli che sono
stati, evidentemente, esperimenti
in corpore vili, alcuni dei quali sono ancora in corso, o
sono appena iniziati.
Un esame a occhio nudo della storia umana mostra che senza un armonioso
rapporto tra la Scienza e la Tecnica, il progresso delle
società umane resta confinato. La civiltà romana
antica, dove la Tecnica era fondamentalmente priva di un solido
sostrato scientifico e filosofico, ne è un esempio.
Un armonioso rapporto tra i due termini, rivitalizzato dalla
avanzatissima cultura araba, ha
prodotto la rivoluzione scientifica del Seicento, e quindi la
rivoluzione industriale.
Ad esempio, Nepero ha studiato i
logaritmi perché spinto non solo da esigenze interne alla
Matematica
di quel tempo, ma anche dalla necessità che i navigatori
avevano di
completare velocemente i calcoli necessari alla navigazione e ai
commerci.
Osserviamo per inciso e con amarezza che i calcoli resi
possibili dalle teorie di Nepero sui logaritmi facilitarono non solo le
navigazioni puramente commerciali, ma servirono anche a portare a
compimento quello che forse è il più grande
genocidio della storia
umana, a danno del continente africano.
Questo è uno dei tanti esempi di un altro scollamento, di
tipo politico: i prodotti tecnologici possono essere usati ben oltre i
confini imposti dalla definizione che abbiamo dato di Tecnica, non per
migliorare la nostra vita, ma per asservirci. Si entra qui nel campo
della Politica, intesa come governo della Cosa Pubblica, e in quello
che è il suo problema insoluto più importante:
quello di ordinare la società in modo equo, in modo da
impedire prevaricazioni strutturali, e in modo che la situazione di
equilibrio così raggiunta sia compatibile con la spinta al
cambiamento data dal progresso scientifico e tecnologico. Osserviamo
per inciso un sinistro parallelismo: un tempo, i matematici della
scuola di Pitagora hanno
disperatamente tentato di nascondere la scoperta delle
quantità incommensurabili; oggi, alcuni governi hanno
tentato o tentano di nascondere e minimizzare quelle
analisi, basate sulla evidenza a noi disponibile, che indicano che il
surriscaldamento cui è attualmente sottoposto il nostro
pianeta è dovuto alle emissioni atmosferiche prodotte
dall'attività industriale. Similmente, alcune aziende non
esitano a nascondere che i loro prodotti sono nocivi alla salute umana.
Diversi secoli dopo il processo a Galilei, è diventato
vitale tutelare la libertà degli scienziati nell'esercizio
del loro compito, che è quello di
comprendere il mondo e
dire la verità. Secondo alcuni, certi esercizi di
aziendalizzazione
delle istituzioni tradiscono non soltanto l'ingenuo errore filosofico
che abbiamo sopra descritto, ma anche il tentativo di affermare un
certo controllo sulla società contemporanea, svuotando di
significato
i meccanismi di controllo democratico che dovrebbero assicurare alle
istituzioni la cura del bene comune.
Dunque, se il rapporto tra la Scienza e la Tecnica è
armonioso, lo sviluppo di uno moltiplica quello dell'altro.
Uno scollamento troppo grande tra i due termini porta, a seconda del
prevalere di questo o di quello, in un caso, al confluire della
Matematica nella metafisica misticheggiante (senza applicazioni
pratiche e, guarda caso, senza innovazioni teoriche); nell'altro caso,
a un puro pragmatismo (libero da sovrastrutture teoriche ma proprio per
questo incapace di avanzare oltre certi limiti).
Un esempio del primo estremo si verificò alla fine di quel
processo di decadenza dello spirito scientifico (iniziato con la morte
di Archimede per mano romana, e giunto a maturazione nel V secolo d.C.)
che ha accompagnato, guarda caso, quella parabola autodistruttiva che
è stata la formazione, l'espansione e infine la crisi
catastrofica dell'impero romano.
Un esempio del secondo estremo si trova, come abbiamo osservato, alla
radice stessa della civiltà romana antica, già
nella sua prima fase di espansione repubblicana. La relativa
superiorità dei romani nella tecnica militare e
l'affidamento che essi ponevano nella forza lavoro degli schiavi,
dovevano rendere ai loro occhi superflua ogni altra cura speculativa.
Un altro esempio del secondo estremo si trova nella matematica
sviluppata dai babilonesi e dagli egiziani nei secoli che hanno
preceduto la scoperta degli incommensurabili, avvenuta come abbiamo
detto nel V secolo a.C. ad opera della scuola di Pitagora. I babilonesi
e gli egiziani avevano raggiunto, nei calcoli matematici, un livello di
tecnicismo relativamente sofisticato, eppure non fu loro la scoperta
degli incommensurabili, mancando loro la necessaria dose di spirito
speculativo e filosofico.
La società romana antica si distingueva per uno scollamento
tra Scienza e Tecnica che, guarda caso, si rispecchiava, specie nella
sua fase imperiale, in uno scollamento sociale che alla fine la rese
ingovernabile. La sua classe dirigente non sapeva più
amministrare la complessità della estensione stessa
dell'impero.
Mi sembra opportuno citare le parole che Gianni Micheli dedica a questi
aspetti, nella
"Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico"
di Ludovico Geymonat (primo volume, p.302):
Neanche i romani, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, seppero
sviluppare a fondo la preziosa eredità degli ingegneri
alessandrini. Essi rivelarono senza dubbio grandi capacità
nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi edifici, ma non
riuscirono a comprendere l'interesse della vera e propria ingegneria
meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche
direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di
energia. Il fatto appare tanto più singolare, quando si
pensi che proprio al I secolo a.C. risale la massima invensione
tecnologica dell'antichità : il mulino idraulico (invenzione
[...] sorta, come scrive U. Forti, nell'orbita della civiltà
di Alessandria).
[...].
Per quanto riguarda lo scarso interesse dimostrato dai romani verso gli
artificiosi congegni esposti negli Pneumatika' di Erone, va inoltre
osservato che la via da percorrere, onde giungere ad una loro
utilizzazione su vasta scala, non poteva non apparire troppo lunga e
difficile a uomini --- come appunto gli ingegneri romani ---
direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate.
L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda
trasformazione sociale e culturale, che avrà inizio solo
parecchi secoli più tardi.
Non sono il solo a pensare che lasciando che la Storia illumini il
presente, sarà più facile evitare gli antichi
errori del passato.
In questo spirito di ottimismo vorrei osservare che, paradossalmente,
anche
nella nostra società contemporanea, specialmente nei paesi
più industrializzati, si manifesta un eccessivo scollamento
tra Scienza e Tecnica, anche se, naturalmente, in forme nuove. Inoltre,
mi sembra innegabile che sia in atto uno strepitoso scollamento
politico, come lo abbiamo chiamato, nell'uso che viene fatto dei
prodotti della tecnologia, che vengono usati non esclusivamente per
migliorare la nostra vita, ma molto spesso per asservirla a scopi
estranei. Infine, la società contemporanea mi sembra affetta
da una crisi che, paradossalmente,
mutatis
mutandis,
ricorda quella dell'impero romano nella sua tarda fase imperiale: ecco
due tra i tanti aspetti in comune:
in entrambi i casi, si osservano i limiti di una classe politica
incapace di gestire razionalmente la complessità; in
entrambi i casi, una fiducia eccessiva viene riposta nella forza
militare.
Questo convegno sarà arricchito dalla partecipazione di un
congruo numero di
matematici stranieri e di giovani allievi italiani.
Tra i matematici stranieri che hanno dato la loro
disponibilità di
massima a intervenire segnaliamo, in particolare, Nageswari
Shanmugalingam, una giovane ricercatrice che si occupa, tra le altre
cose, dello studio degli spazi metrici di misura, che rappresentano un
altro tentativo di inserire lo studio delle strutture continue e
discontinue in un unico contesto concettuale.